Månegarm – “Urminnes Hävd – The Forest Sessions” (2006)

Artist: Månegarm
Title: Urminnes Hävd – The Forest Sessions
Label: Displeased Records
Year: 2006
Genre: Folk
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Intro”
2. “Himmelsfursten”
3. “Utfärd”
4. “Älvatrans”
5. “Hemkomst”
6. “Döden”
7. “Vaggvisa”

Tra il 2004 ed il 2006, i Månegarm si trovano nel pieno concretizzarsi di uno shift stilistico, del cambio di pelle che li avrebbe portati dritti alla cruciale tappa “Vargstenen”: se la compilation “Vargaresa – The Beginning” finisce per suonare fin dal sottotitolo non solo la retrospettiva dei primissimi passi dimostrativi del gruppo tra il ‘95 ed il ‘97, ma anche l’indizio di un nuovo inizio, uscita com’è immediatamente dopo quel “Dödsfärd” che portava ad un primo compimento, in un ambito ancora efferatamente legato al Black Metal nordico in cui trova le radici la band già a quel punto capitanata da Erik Grawsiö, tutte le intuizioni folkloristiche più o meno timidamente incastonate nel debutto “Nordstjärnans Tidsålder” del 1998 e dell’ancor più fiero “Havets Vargar”, quello che a distanza di quindici anni dalla sua pubblicazione resta invece l’unico EP dalle fattezze totalmente acustiche degli svedesi di Norrtälje è la rivelazione di un carattere così intimo da aver garantito la profondità dell’evoluzione intercorsa proprio tra il precedente, spartiacque “Vredens Tid” e i vertici qualitativi del celebrato quinto full-length.

Il logo della band

Avete letto bene: oggi, nell’articolo che state consultando, si tratta non solo la crucialità di un EP che nonostante la natura discografica di minore -sia per caratura che per transitorietà- non ha nulla, ma anche delle sfaccettature qui (in un disco largamente ignorato proprio in quanto per durata ristretto) pienamente evidenti e che hanno portato la band allo stato di grazia che avrebbe garantito la composizione non soltanto del già audace lavoro del 2005, ma anche e soprattutto di “Vargstenen” prima e poi “Nattväsen” nel 2008. A tal proposito, non solo “Urminnes Hävd” (sottotitolato “The Forest Sessions”, le sessioni di canti attorno al fuoco ed immersi nel verde, nell’oscurità e nella notte che circonda le attività musicali principali dell’allora quintetto) si pone cronologicamente in mezzo ai due giganti della discografia dei Månegarm, per molti estimatori comprensibilmente gli apici della nutrita produzione ad oggi, ma anche come pietra di confine nel cambio di etichetta discografica che li porterà, dimissionari da una olandese Displeased Records ormai in dirittura di chiusura con cui hanno, a quel punto, pubblicato qualunque loro disco fino al precedente, a migrare come fosse la chiusura di un cerchio tra i ranghi di Black Lodge e Regain Records con una distribuzione esterna alla Svezia e al nord Europa decisamente maggiore; azione che a sua volta porterà alla più grande esposizione per merito dei mezzi di Napalm Records nel nuovo decennio.

La band

Ma nonostante ciò, e forse in realtà proprio grazie alla sua natura fuori dal mondo nonché dai binari più solitamente Metal della produzione Månegarm, a distanza di un decennio e mezzo i sei gioiellini inclusi e registrati per l’estemporaneo disco di sessioni nella foresta reggono ancora abbondantemente la prova del tempo, mostrando il carattere forte degli svedesi in una veste che nel 2006 è quasi del tutto nuova; quasi inedita, perché gli episodi acustici, per non parlare del DNA dal sapore folkloristico di retaggio Isengard o Storm o l’inclinazione al field-recording d’ambiente (si pensi al “Preludium” della title-track di “Vredens Tid” come episodio singolarmente lampante), non sono mai mancati nei loro lavori anche senza dover ricorrere all’esplicito precedente nella chiusura e canto intonato alla vittoria, “Segervisa”, ai violini negli assalti di “Sigrblot”, nel break stregato di “Skymningsresa” o nell’intreccio con lo scacciapensieri di “Kolöga Trolltand” – volendosi fermare giusto a meno di metà del disco che taglia a metà la prima decade di nuovo millennio per il gruppo. Nell’arco di mezz’ora scarsa introdotta da un temporale estivo, Grawsiö (ancora percussionista oltre che cantante, il basso nelle mani di Pierre Wilhelmsson), la coppia di sei corde AlmquistAndé e l’apporto fondamentale di Janne Liljeqvist agli strumenti tradizionali (coadiuvato dalle tonalità calde dello djembe di Gustaf Esters e dalle stranezze di Stefan Grapenmark) danno sfogo a tutta la loro inclinazione folkloristica più intima spaziando tra ritmi tribali che rinvigoriscono preannunciando il tuonare della successiva battaglia, dei guerrieri che giunta l’era della rabbia, della vendetta pagana, ne saranno protagonisti e le cui gesta verranno incise sulla pietra runica dedicata alla figura totemica del lupo; tra le vivaci fiamme di danze rituali e propiziatorie (“Himmelsfursten” ed “Utfärd”) che curano ferite ed inebriano disperse e sfrenate attorno ad un fuoco vivo, e le più dolci melodie notturne che (delle “Dödens Strand” private di componente elettrificata e doppia cassa, sprovviste di ciò ma non di verve) accompagnano gli ascoltatori nel sonno irto di pericoli e magie (“Döden”, con il suo didgeridoo di limitrofa memoria “Fra Underverdenen” e “Troll, Død Og Trolldom”), d’incubi e sogni (“Älvatrans”), spiriti nascosti in mezzo alle fronde paludose di un bosco impressionantemente reso su tela per la copertina del disco dall’ancora oggi solito compagno artistico Kris Verwimp.
Il tutto viene registrato da quella che è a conti fatti la formazione più solida e longeva di sempre, al netto degli esiti forse anche la migliore, qui allargata dal ruolo di co-protagonista delle splendide melodie nella prestazione di Umer Mossige-Norheim: la stessa Ymer che presenzia sui dischi della band come fugace ospite fin dal debutto di fine anni ’90 e che lo farà fino a “Vargstenen”, e nel particolare la voce femminile che accompagna Erik Grawsiö (per la prima volta lanciato nei toni che, partendo dalla doppietta “Frekastein”“Hemfärd”, contraddistingueranno l’evoluzione del suo canto pulito e corale in tutti i successivi album fino a “Fornaldarsagor”) e con cui qui si intreccia a più e più riprese, a volte soavi (“Hemkomst” che strumentalmente tanto sa di “Kaiku” da “Verisäkeet” dei Moonsorrow uscito un anno prima, e chiaramente la crepuscolare nenia “Vaggvisa” con i suoi movimenti à la “Kveldssanger”), a volte ruggenti (come del resto accadeva proprio nell’omonimo brano di “Vredens Tid”, accompagnato dalla coda “Svuna Minnen” – tutto tranne che aliena ad “Urminnes Hävd”), in uno splendido turbinio che accarezza la memoria come una fiaba folkloristica perduta nel tempo.

Specialmente durante il lasso di quello trascorso tra il 2000 ed il 2008, gli album o i mini acustici come questo non sono di certo una assoluta rarità nel Folk Metal e nei limitrofi territori a tutto tondo: si voglia ricordare e pensare al magnifico “Visor Om Slutet” dei Finntroll (2003) che tutta la tendenza su più larga scala ha aperto nell’unicum che dentro come fuori dalla discografia dei finlandesi per fattezze e sensazioni ancora oggi rappresenta, oppure il suo progenitore “Buchonia” dei meno creditati Menhir già nel 1998, o ancora il cantico della spada degli Skyforger, l’inizialmente autoprodotto “Zobena Dziesma” che per timing più sostanzioso è persino considerato di fatto un full-length dal pieno diritto ad essere tale nella discografia dei lettoni. Eppure, nonostante le più diverse testimonianze possano sopraggiungere scandagliando mensole o memorie di quasi due decenni fa, la necessità di rispolverare e gustare ancora una volta, al calar della sera, un lavoro dalla natura secondaria di una band il cui successo mediatico è (anche correttamente) giunto con ben altri lavori, non può che mostrare a chiare note quanto questa prescrizione immemore in musica abbia lasciato tracce indelebili nel cuore di chi ha avuto il piacere di farla propria.

Karl “Feanor” Bothvar

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